Sergio Los
XY – Come potrebbe l’arte contemporanea operare nell’ambito di quel processo che oggi persegue la sostenibilità delle città che abitiamo?
SL – Intanto quel processo non è poi così definito e strutturato da potervi associare, con una certa chiarezza, altre attività; poi credo che sarebbe meglio aiutare un processo che persegue città resilienti piuttosto che città sostenibili, anche se oggi la sostenibilità pare più comprensibile della resilienza (possiamo considerare resiliente un sistema capace di resistere a eventuali perturbazioni, di riparare se stesso rapidamente quando le subisce, e di apprendere a prevenirle. Il contrario di resiliente è vulnerabile). Non è poi neanche tanto chiaro cosa sia l’arte contemporanea quindi potremmo dire quello che vogliamo e, presupponendo una certa concezione della città sostenibile e una certa concezione dell’arte contemporanea, pensare di dire qualcosa di giusto.
XY – Noi non vogliamo essere tanto elusivi, nessuno ci obbliga a parlare di queste cose quindi lo facciamo solo se pensiamo che ne valga la pena.
SL – Allora mi pare legittimo porre la prima questione, se sia più adatta a perseguire la resilienza delle città l’arte oppure l’estetica. Qualcuno le confonde, ma è giusto considerarle appunto sinonimi? Avrebbe senso, per esempio, titolare Biennale di Estetica contemporanea, la mostra di Venezia? Senza far credere a molti che si tratti di una manifestazione riguardante cosmetici, benessere e bellezza?
XY – Un discorso sulla resilienza della città mi pare troppo serio per gli artisti, adatto più agli ingegneri e agli operatori della scienza che non a quelli dell’arte o dell’estetica.
SL – D’accordo, siamo talmente convinti che l’arte e l’estetica abbiano da suscitare emozioni, sogni oppure divertire, che non pensiamo alla possibilità che possano offrire qualche aiuto a risolvere dei problemi, fornire delle conoscenze utili per motivare persone intorno a temi importanti, modificare la nostra visione del mondo, ecc.
Per molti secoli l’arte è stata una fondamentale forma di conoscenza, che ha aiutato gli umani a vivere, a costruire bellissimi edifici, a dipingere, scolpire, fare poesia, guarire, ecc., perché mai questo ruolo dovrebbe essere scomparso? Attualmente la nostra principale forma di conoscenza è la scienza, o meglio le scienze della natura, ma pure essendo molto potente, la scienza non ha saputo rimpiazzare completamente l’arte, essa non svolge tutti i compiti che un tempo erano svolti dall’arte.
XY – Mi pare un punto di vista interessante, ma l’arte era veramente una forma di conoscenza?
SL – Vi sono vari filosofi che la pensano così e che confrontano le diverse modalità della scienza e dell’arte come forme di conoscenza della realtà. Possiamo argomentare tale diversità come basata sull’uso di differenti sistemi simbolici, ma pur sempre su sistemi simbolici.
La scienza persegue una conoscenza tendenzialmente strumentale che, come tale, può essere verificata anche da un individuo, essa non richiede una risposta/riscontro sociale per confermare le sue scoperte. Non escludo che altri individui verifichino la validità di tali scoperte, ma lo fanno sempre individualmente. Questo perché essa conosce prioritariamente un mondo esterno, oggettivo, indipendente dall’osservatore quindi un mondo che preesiste all’osservazione e che implica perciò una idea di verità come corrispondenza tra la conoscenza ipotizzata e la realtà del mondo sperimentata. Questa concezione presuppone che le modificazioni del mondo perseguite applicando la conoscenza acquisita, siano effettuate dopo la formulazione e la verifica delle leggi incorporate in tale conoscenza, ma che l’azione conoscitiva non implichi alcuna modificazione della realtà osservata perché essa si pone all’esterno di tale realtà, fuori linea.
L’arte persegue invece una conoscenza tendenzialmente comunicativa che, come tale, richiede sempre una verifica sociale; per considerare effettiva la sua conoscenza, essa richiede una risposta che confermi l’avvenuta comprensione di ciò che l’arte comunica. Alcune opere guideranno dunque le trasformazioni future e altre no, ma per selezionare quelle opere occorre realizzarle, proprio perché esse richiedono una risposta sociale, una approvazione esplicita e pubblica. L’arte dunque modifica la realtà che conosce poiché si trova a operare all’interno di quella realtà, in linea. In questo caso il mondo non può preesistere all’esperienza artistica e i suoi sistemi simbolici operano in un modo necessariamente progettuale. Potremmo considerare l’arte un processo conoscitivo tendenzialmente costruttivista, proprio per la sua capacità di costruire ciò che conosce: invece che limitarsi a descriverlo, delegando altri a costruirlo in un secondo momento, essa lo realizza direttamente.
XY – Mentre posso immaginare la scienza impegnata a rispondere a domande provenienti dalla società, come affrontare gravi malattie, come migliorare la produzione agricola, come inventare un’arma capace di annientare un nemico, ecc., mi è difficile presupporre tali domande alle opere d’arte che dovrebbero costituirne delle risposte.
SL – Il mio amico Manfredo Massironi, un’artista molto bravo e anche un pensatore intelligente dice che “l’arte è quel sapere in cui le risposte vengono prima e indipendentemente dalle domande.” Il fare dell’artista operatore B non attende conoscenze esplicitate da un altro ricercatore A, ma conosce rifacendo quindi esplicitando, nel fare (fare come dare risposte), delle domande implicite. Per questo nell’arte troviamo risposte che ci aiutano a esplicitare le domande implicite cui essa risponde. Nella scienza invece l’operatore B utilizza per rispondere effettivamente, le conoscenze elaborate dal ricercatore A simulando risposte a domande ricevute.
Parlando di conoscenza artistica, ma non estetica, accanto alla conoscenza scientifica, occorre ricordare quando l’arte diviene estetica. Anche se il nome è attribuito a Baumgarten, la teorizzazione più autorevole, e generalmente accettata, proviene dalla “Critica del giudizio” pubblicata da Immanuel Kant nel 1790. Egli intendeva liberare la nuova conoscenza oggettiva attribuita alle scienze, da quella conoscenza che prima delle scienze esercitava l’arte, rimpiazzandola con quell’esperienza decisamente soggettiva che caratterizza l’estetica. Nel perseguire questa esperienza estetica, sensoriale, il nuovo artista produce opere che provocano emozioni estetiche. Ne conseguono due credenze: la prima, contemporanea alla nascita dell’estetica, presuppone una naturale condivisione del piacere soggettivo di fronte a eventi naturali cui primariamente si riferiva la concezione kantiana; l’altra, che caratterizza le avanguardie artistiche del novecento, procede a eliminare qualsiasi forma di referenzialità, la prospettiva, la raffigurazione, la bellezza, la morale, ecc., in modo da rendere irreversibile a favore della scienza quel ruolo conoscitivo dell’arte.
XY – Quali motivazioni potremmo trovare per spiegare queste grandi trasformazioni che contraddistinguono la modernità, quale ne è il movente, secondo te.
SL – L’estetica può ora essere esperita da chiunque, senza preliminari conoscenze e per questo è implicitamente internazionale. Questa credenza è stata funzionale pure a legittimare le collezioni museali di opere provenienti da culture molto diverse da quella delle città che le ospitavano, quindi una certa tendenza a decontestualizzare tali opere estetiche. L’opera diventa un oggetto trasportabile dal momento in cui la sua comprensione non richiede alcun riferimento al contesto, né alcuna codificazione. Tutta la cultura e l’economia del turismo presuppongono questa credenza. Con l’estetica l’opera perde qualsiasi contenuto: l’emozione estetica diverte, non comunica conoscenze. Già alla fine del XIX secolo Conrad Fiedler propone di distinguere l’arte come forma di conoscenza dall’estetica come scienza del bello. Ma, più vicino a noi l’estetica analitica, soprattutto N. Goodman, dopo le forme simboliche di E. Cassirer e S. Langer, propone quei sistemi simbolici che reggono la capacità di conoscere della scienza come dell’arte, sia pure con radicalmente diverse modalità. Con questo l’arte adotta un sistema simbolico che le consente appunto di conoscere.
XY – Queste mutazioni avvengono nel campo della filosofia, la distinzione dell’arte dall’estetica dovrebbe trovare anche nel campo dell’arte una conferma, una interna necessità di distinguere queste due attività, estetiche e artistiche.
SL – Dopo le avanguardie, nel campo della produzione artistica, avviene qualcosa di analogo a ciò che si svolge nel campo della filosofia. L’arte concettuale degli anni sessanta si distingue dall’estetica per la sua priorità data ai concetti e alle idee espresse, rispetto al risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. In questa evoluzione riprende esperienze precedenti, naturalmente, basta pensare a Duchamp. Da questo momento si apre per un certo numero di artisti, una nuova produzione artistica che riproponendo una dimensione referenziale delle opere, ne riattiva anche le potenzialità cognitive. Molti successivi sviluppi quali, l’arte povera, la land art e diverse altre, confermano questo indirizzo, anche se questa distinzione dall’estetica, che implica una risemantizzazione dell’arte, andrebbe più direttamente tematizzata. Pure l’arte programmata si muove distinguendosi nettamente dall’estetica, ma con una intenzionalità scientifica che confermerebbe alla scienza l’unico ruolo conoscitivo affidabile integrando anche l’arte nel suo ambito. Le esperienze dell’arte programmata perseguono la produzione di opere che si avvalgono di strumenti scientifici, di applicazioni matematiche, di tecnologie innovative, che non distinguono le loro ricerche da quelle scientifiche.
XY – Posso seguirti fin qua, ma è innegabile che, per quanto modificato lo statuto delle opere, i luoghi dell’arte restino sempre relativamente appartati: le gallerie, i musei, le grandi manifestazioni artistiche, ecc., seguite con attenzione dal mercato dell’arte.
SL – La difficoltà dell’arte concettuale nel trovare adeguati spazi museali, deriva proprio dal fatto che essa, pure uscita dall’estetica, non ha ancora acquisito quella autonomia dal collezionismo, che fa nascere i musei e decontestualizza l’arte, e che le consentirebbe di tornare negli spazi della città, appunto round the clock. L’opera d’arte è un’opera che appartiene alla vita, come le sedie, i quadri e le sculture delle case e le case stesse. Qualche quadro, qualche sedia e qualche casa essendo meglio degli altri quadri, delle altre sedie e delle altre case, per questo viene selezionato e fa scuola. L’arte dovrebbe abbandonare i musei, che le attribuiscono uno statuto estetico, un tempo e uno spazio speciali, e anche quell’idea dei musei come certificatori di world-art che commissiona opere come oggetti estetici solo per arricchire lo stesso museo, dove si celebra la liturgia individuale dell’esperienza estetica.
Soltanto l’architettura offre un’esperienza artistica non stop, tutte le altre arti occupano frammenti del nostro spazio-tempo, della nostra attenzione, inseriti in una vita che è “round the clock”. Il capannone che ospita la manifestazione è, come architettura, non stop, tutti gli altri allestimenti riguardano invece esperienze singolari che occupano un tempo specifico, cominciano e finiscono con la sosta mirata alla loro esperienza. Martina Cavallarin, curatrice della mostra e progettista dell’allestimento, è stata particolarmente brava a far interagire le varie opere (a renderle appunto round the clock) senza far loro perdere quella autonomia, che le avrebbe ridotte a diventare semplici componenti di un complesso architettonico. A volere che inizino e finiscano, spesso sono gli artisti, che pretendono una scena propria per la propria opera, quindi nelle visite un momento specifico dello spazio e del tempo, una pausa di riflessione appunto. Nell’estetica ogni artista vorrebbe un mondo tutto per se.
XY – Ma potremmo sostenere che l’architettura persegua la sostenibilità?
SL – Oggi l’architettura, che è quasi sempre una combinazione di ingegneria ed estetica, non è più round the clock. Entrambe si ritengono internazionali e presuppongono che la stabilità delle strutture e la climatizzazione/illuminazione degli edifici siano compito dell’ingegnere mentre l’architetto dona all’opera un abbellimento, una qualità estetica priva di referenti. Nel mio lavoro presuppongo che le prestazioni statiche e climatiche rappresentino dei contenuti, costruttivi e ambientali, e che il progetto debba occuparsi non solo che le relative proprietà siano funzionalmente corrette, ma che siano anche comunicate, espresse, mostrate. L’architettura antica faceva questo molto bene, sia quella colta che quella popolare. La barchessa comunicava molto bene la costruzione, poi codificata dal sistema compositivo classico di A. Palladio, evidenziando l’ordito e la trama delle articolazioni strutturali rispetto ai pilastri o ai muri portanti, ma comunicava anche mediante le facciate porticate l’apertura al sole e con quelle più chiuse, con minori aperture, la protezione dal vento, sempre correttamente orientate. Anche l’architettura ha avuto le sue avanguardie, con le quali è stata espressa la modernità della cultura che inizia con l’Illuminismo. È proprio lì che inizia quella dissociazione in ingegneria ed estetica che contraddistingue le opere moderne e quelle contemporanee.
Il mio punto di vista considera necessario uscire da quella cultura della modernità, al fine di perseguire la resilienza delle città e degli edifici. La predicazione architettonica dell’internazionalismo eludeva il carattere regionale di ogni buona architettura, ma la retorica del progresso industriale eludeva, forse inconsapevolmente, il carattere regionale del proprio “internazionalismo”. Gli edifici internazionali avevano caratteristiche tali da esemplificare costruzioni tendenzialmente gotiche, predicavano una modernità regionale, che, fatta passare come internazionale, anticipava e spingeva l’attuale globalizzazione. Il grattacielo di acciaio e vetro non è un simbolo della modernità, ma del clima freddo e sotto illuminato delle regioni che lo hanno inventato, congruente proprio con la tradizione gotica. Nel nostro clima temperato esso è un cartellone pubblicitario che vende una particolare modernità, quella delle culture che ci hanno colonizzato, facendoci perdere perfino il senso del nostro clima mediterraneo, della nostra presenza al mondo.
XY – Che fare dunque?
SL – Un’arte referenziale cognitiva, comprendente l’arte concettuale e con la land art (magari come civic art) anche l’architettura e l’urbanistica, sarebbe quella conoscenza che cerchiamo per una vita più resiliente, sostenibile. Un’arte possibile che, proprio movendo verso la resilienza, raggiungerebbe uno statuto pienamente round the clock – fuori da quei templi dell’estetica che sono diventati i musei – dentro le città, nella vita. Agli artisti la scelta se restare nel mondo marginale dei musei o rappresentare un’altra forma di conoscenza. La scienza non risolverà mai (da sola) i problemi della sostenibilità perché non sa risolvere quelli della città.